I giornali hanno perso il loro monopolio sulle informazioni. Grazie ad internet, il sapere è diventato per tutti, non solo nella fruizione, ma anche nella sua creazione. Questo, che da un lato ha incrinato la qualità dell’informazione, ha creato anche una serie di opportunità .
Le aziende, per esempio, un tempo rinchiuse nei loro edifici, grazie ai social network e ai blog, per non parlare di video e streaming, hanno potuto raccontarsi meglio e avvicinarsi a quei clienti che un tempo erano rappresentati solo da numeri su dei report.
In questo processo di racconto, il famoso storytelling, arrivano delle figure nuove, come i brand reporter: esperti di comunicazione che lavorano per le aziende per raccontare la loro anima, le loro attività ed evoluzione.
Il libro Professione Brand Reporter è un manuale che racconta questo processo. Mostra l’evoluzione storica dell’informazione per arrivare ai metodi usati dai brand reporter per raccontare cosa accade nelle aziende, con tanto di esempi concreti di alcune aziende, come Redbull ed ENI.
Scritto da Diomira Cennamo e Carlo Fornaro, esperti di comunicazione di impresa con esperienza decennale, il libro tratta argomenti come il marketing, il monitoring e l’etica. È un libro pieno di informazioni per raccontare la natura di una professione nata grazie ad internet.
Il libro è composto da 277 pagine ed è edito da Hoepli. Lo trovate nelle librerie per 24,90 €, oppure su Amazon dove è venduto per 21,17 € e in versione digitale per 15,99 €.
SI, hanno creato la possibilità per chi ha molto tempo libero, di fare il mendicante di visite remunerate da interessi dei committenti. Così è morta la qualità in rete, a partire da questo prodotto che di rado leggo.
Cosa intendi per questo prodotto?
Ciao Christian, è proprio questo ciò di cui parla il nostro libro: la produzione di contenuti realmente di qualità , che raccontino i fatti. E questo solo il Giornalismo con la G maiuscola lo può garantire. Si parla sempre di verità , il discrimine è quello. In questo discorso il margine è il punto di vista, ma esattamente come lo è quello di qualsiasi testata giornalistica, che, ahimé, dai binari della verità è più volte uscito… Il problema della qualità dei contenuti in Rete, che tu segnali, è un problema enorme, che c’è sempre stato e che oggi sta finalmente emergendo con tutto il dibattito sulla post-verità . L’antidoto a questo è un messaggio trasparente e onesto.
Per me non si tratta solo di qualità dei contenuti, ma anche di etica. Per me i contenuti dinamici in rete devono limitarsi a contenere la ridondanza delle informazioni. Condivido le posizioni di Berners Lee e vorrei trasparenza di algoritmo. Non amo essere profilato e dover leggere pagine confezionate su misura per me sulla base di un’osservazione dei miei comportamenti subita ovunque.
Oggi chi si occupa di un brand è pagato dalla compagnia che da esso trae profitto, non mi sembra si possa far affidamento all’oste per sapere se il suo vino è buono. Ancor peggio funziona con la politica, tu credi di rivolgerti a un personaggio pubblico, ti rispondono agenzie che lavorano per chiunque, pagano campagne per raggiungerti e queste vengono finanziate dalle Pubbliche Amministrazioni o da grandi imprese che di fatto sono il motore economico dei social network a partire dalla profanazione politica.
Per me la qualità deve essere spinta dalla passione, il resto è marketing.
Certo che è marketing, ma un marketing buono. Non a caso in “Professione Brand Reporter” c’è un capitolo dedicato all’Etica. Mi permetto di dire: il resto è ciò che è fatto senza cuore o, che è lo stesso, senza andare al cuore, all’essenza del brand.